Animali vittime silenziose: Storie sconosciute di guerra.

Oggi, vorrei trattare un tema triste e delicato: gli effetti della guerra sugli animali. Non è dei conflitti odierni che scriverò, per questi bastano già i telegiornali e tutti i media che se ne occupano, invece, vorrei narrarvi di alcuni fatti accaduti durante la I e la II guerra mondiale. La guerra più cruenta e con più vittime, nel secolo scorso, fu quella del 1914 – 1918, perché con la seconda era industriale la tecnologia bellica mise a punto nuove armi molto più letali del cannone, del moschetto a ricarica o delle armi bianche, che affiancavano i corpi d’armata tradizionali come la cavalleria. Apparvero aerei da combattimento, carri armati, bombe a mano e granate che rilasciavano gas mortali. Il fronte italiano era posto sulle Alpi e vennero usati migliaia di muli e asini per trasportare, su quell’impervio territorio, viveri e munizioni. Per i dispacci venivano usati, malgrado l’esistenza del telegrafo, i piccioni viaggiatori e i cani accompagnavano i reggimenti per essere usati nella ricerca dei feriti o come staffette. Dall’uno e l’altro fronte però, anche gli animali venivano considerati nemici e venivano abbattuti. Durante la disfatta di Caporetto, di muli, ne morirono a migliaia, inoltre, nella ritirata venendo a mancare le derrate alimentari molti vennero macellati sommariamente per poter nutrire i soldati. I cani, nonostante spesso fossero delle mascotte e un supporto psicologico in quella marea funebre, venivano mandati in avanguardia per testare la sicurezza delle trincee dopo il lancio dei gas. Le cose, peggiorarono per gli animali, con la fine della guerra e il rimpatrio delle truppe. In Europa c’erano uomini lontani migliaia di chilometri dalle loro case: Canadesi, Australiani e Indiani e il loro rientro via mare durava per parecchie settimane, così i comandi militari decisero per la soppressione di tutti gli animali che avevano servito, anche valorosamente, in guerra. Vi voglio far partecipi di una storia della mia famiglia. Mio nonno, ha combattuto, come fante, durante la Prima guerra mondiale. Nonostante fosse veneto era astemio e non ricordo mai di averlo visto bere, tranne una volta all’anno: il giorno di San Martino. Mia nonna, tutti gli 11 novembre, cucinava un gran banchetto e in casa nostra si festeggiava allegramente la ricorrenza del salvataggio di mio nonno da parte di un asino. Mio nonno, che era di stanza sul fronte albanese, si trovò a dover guadare un fiume: senza saper nuotare, con lo zaino in spalla e un freddo feroce. La corrente lo travolse e sarebbe morto se non si fosse attaccato fortemente alla lunghina dell’animale che lo trasse a riva salvandogli la vita. Era un uomo dagli occhi grigio acciaio con uno sguardo gelido e, sebbene fosse di piccola statura, quando ti guardava non potevi evitare di sentirti in soggezione. Ma quando gli si domandava: “nonno, ma l’asino che fine ha fatto?”, ecco che il suo sguardo si illuminava avvolgendoti nella complicità e con la mano faceva il gesto di “rubato”. Probabilmente, con quel somaro mio nonno rientrò a Dueville (VI) facendolo vivere beatamente nella fattoria paterna. Anche la Seconda guerra mondiale ebbe le sue vittime nel regno animale. Non sapremo mai le perdite dei selvatici durante le guerre, ma sappiamo che gli animali da reddito furono confiscati per diventare carne in scatola da servire ai soldati, oppure come rappresaglia dei nemici che conquistavano i territori. Da ambo le parti ci furono estremi atti di razzismo contro i terrier inglesi e le razze tedesche, con la soppressione di innocenti cani che, involontariamente, rappresentavano l’odiato nemico. In Gran Bretagna, nel 1939, avvenne un fatto “censurato” di cui poco si narra. Nonostante Neville Chamberlain, pensasse che il conflitto con la Germania nazista potesse essere evitato, nel territorio britannico il vento della guerra, comunque spirava. In questo contesto, il governo propose alcune raccomandazioni, nell’ipotesi che l’infausto evento accadesse. Si consigliava alla popolazione delle città, di trasferire i bambini nelle zone rurali che sarebbero state meno soggette ai bombardamenti. La stessa cosa venne fatta anche per gli animali da compagnia che non avrebbero potuto accedere ai rifugi, quindi si suggeriva un’eventuale soppressione nel caso non si potesse attuare uno spostamento dell’amico peloso. Questi suggerimenti non furono mai tramutati in una legge, restarono solo delle vaghe linee guida in caso di un’aggressione bellica. Il panico e l’isteria, però, si propagarono come un incendio e fu così che, ancor prima che Hitler invadesse la Polonia con le conseguenze di una dilaniante guerra, nelle città inglesi vennero uccisi ben 750.000 animali da compagnia. Molti cercarono di opporsi a questa carneficina, diverse associazioni, perlopiù guidate da nobildonne, si fecero carico delle vite di questi innocenti fondando canili e gattili nell’entroterra dell’isola, sottraendoli a un’assurda morte. Per contro, a questa assurda pazzia, quando nel 1940 centinaia di migliaia di soldati britannici dovettero rimpatriare dal porto francese di Dunkerque, perché le armate tedesche incombevano su di loro, furono migliaia i combattenti che si imbarcarono accompagnati dai cani randagi francesi abbandonati dalle loro famiglie in fuga. Pubblicato da Lagotto I Pignatei

L’EVOLUZIONE DEL CANE: UN VIAGGIO DI MILIONI DI ANNI

Per tutti gli appassionati cinofili che desiderano scoprire le origini del proprio fedele amico L’evoluzione del cane. Il cane condivide il 99% del suo DNA con il lupo, analogamente a quanto accade tra uomo e scimmia. Tuttavia, così come noi non siamo scimmie, il cane non è un lupo. Nell’ambito evoluzionistico, entrambe le linee presentano “anelli mancanti”: dall’Australopiteco all’Homo Sapiens per l’uomo, e nella catena evolutiva canina numerosi passaggi intermedi restano ancora da scoprire. Alle radici dell’albero genealogico Il progenitore dei canidi moderni è il MIACIDE – un piccolo mammifero carnivoro plantigrado dal corpo allungato, simile a un mustelide. I fossili più antichi di questo animale risalgono a circa 65 milioni di anni fa, coincidendo con l’estinzione dei dinosauri, e sono stati rinvenuti sia nel Nord America che nella Francia settentrionale. È probabile che l’estinzione dei dinosauri abbia permesso a questo piccolo mammifero di conquistare il vertice della catena alimentare, favorendone la crescita dimensionale e l’evoluzione fino ai primi esemplari di lupo preistorico, animali dalla corporatura imponente. Quando si parla dell’evoluzione di una specie, non si ragiona in giorni o settimane, ma in millenni e milioni di anni. I primi cani domestici Archeologi e paleontologi hanno rinvenuto scheletri canini in prossimità di insediamenti umani risalenti a 30.000 anni fa. Questi cani del Paleolitico assomigliavano più ai dingo attuali che ai lupi. Gli uomini di quel periodo vivevano in piccoli gruppi familiari nomadi, spostandosi per cacciare e raccogliere piante commestibili. Non esistevano ancora villaggi stabili, e l’uomo paleolitico trovava riparo in caverne o anfratti naturali. Stava iniziando a padroneggiare il fuoco, comprendendo i suoi molteplici benefici: dalla protezione contro i predatori alla cottura della carne, che diventava così più digeribile e meno contaminata. La nascita di un’amicizia millenaria Come è iniziata l’amicizia tra uomini e cani? L’ipotesi dello “spazzinaggio” appare poco credibile: l’uomo preistorico utilizzava ogni parte delle prede cacciate: pelli per coprirsi, carne per nutrirsi, ossa per creare utensili, armi, monili e oggetti rituali. Le risposte che possiamo dare sono tutte ipotetiche, forse è più facile per i lettori dei romanzi preistorici di Jean M. Auel immaginare come l’uomo del paleolitico sia riuscito ad addomesticare il cane. È possibile che un cane in difficoltà, magari una femmina incinta, si sia avvicinata ad un focolare che non aveva l’acre e pericoloso odore di fumo, ma un invitante profumo di cibo e, oltrepassando le barriere sociali, abbia dato inizio a un commensalismo di durata millenaria. È plausibile che questo fenomeno si sia verificato contemporaneamente in diversi gruppi umani. Quando l’uomo iniziò a formare comunità più ampie, fino a costituire i primi villaggi, anche i cani provenienti da zone diverse si incontrarono, dando origine agli incroci che avrebbero portato al cane moderno. Un ringraziamento speciale alla Dottoressa Cinzia Stefanini etologa e comportamentalista, per le preziose informazioni sull’evoluzione del cane e sulla nascita del suo legame con l’essere umano @cinzia.Stefanini.etologa. Pubblicato da Lagotto I Pignatei

Lagotto Romagnolo: una storia affascinante!

Il Lagotto Romagnolo, è una razza canina che affonda le sue radici nella storia antica dell’Italia, in particolare nella regione dell’Emilia-Romagna, ha una genesi affascinante che si snoda nei secoli. Attualmente conosciuto come eccezionale cercatore di tartufi. Questo cane ha attraversato un’interessante evoluzione nel corso del tempo, passando da cane da riporto acquatico a cercatore di tartufi. Origini e storia Se usiamo come parametro la pittura, per datare l’età storica del Lagotto Romagnolo, scopriamo che attorno alla metà del 1400 il grande pittore Andrea Mantegna, affrescando “La camera degli sposi”, presso il palazzo Ducale di Mantova, ritrasse in una scena un delizioso cagnolino molto simile al Lagotto Romagnolo moderno. In un bellissimo articolo di Francesco Farina, pubblicato sul sito Club Italiano Lagotto, riguardante questo affresco si poneva alcune domande sul perché questo cane fosse posto nella scena, tra le gambe del marchese, e che ruolo avesse all’epoca il Lagotto. Vorrei permettermi di dare una risposta dettata dal cuore più che da una conoscenza diretta. Mantova, e il suo territorio, è percorsa da numerosi fiumi e canali e il passatempo preferito dai signori dell’epoca, era la caccia. Probabilmente quel Lagotto era il miglior cane da riporto del Gonzaga e data l’indole affiliativa di questa razza, sarà stato anche il più intimo e amato tra tutti i cani della sua corte. Quindi il Mantegna immortalandolo lì, tra le sue gambe, ha voluto raccontarci una storia di affetto reciproco. Altre opere d’arte giunte dal passato sono: il ritratto del pittore Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, a opera della sua bottega, dove in primo piano, tra lui e la sorella, è dipinto il suo cane che è chiaramente un Lagotto Romagnolo. Tra il seicento e il settecento esistono altri ritratti, di questa razza, eseguiti da pittori minori, perché i suoi ricci e il suo musetto hanno una grande attrattiva. Il nome lagotto Il nome del “Lagotto” deriva dal nome dialettale “Lagott” col quale i romagnoli definivano gli abitanti delle zone palustri. e il loro cane venne chiamato “càn lagòt”. Inizialmente, il Lagotto Romagnolo venne allevato come cane da riporto acquatico, specializzato nella caccia di anatre, beccaccini, eccetera nelle paludi e nelle zone lagunari nel delta del Po. Il suo mantello riccio e idrorepellente, insieme alle sue doti di nuotatore, lo rendevano perfetto per questo compito. Transizione al tartufo Con il prosciugamento delle paludi nel XIX e XX secolo, il ruolo del Lagotto cambiò. Gli allevatori, notando il suo eccezionale senso dell’olfatto e la sua predisposizione a scavare, iniziarono ad addestrarlo per la ricerca dei tartufi. Questa transizione segnò l’inizio della sua fama come “cane da tartufo” per eccellenza, un’attività che richiede un olfatto altamente sviluppato e un’ottima capacità di concentrazione e collaborazione durante la ricerca. Salvare la razza dall’estinzione Con l’arrivo della seconda rivoluzione industriale in Inghilterra, il ruolo del cane da lavoro accanto all’uomo cominciò a mutare. In breve tempo gli uomini iniziarono a fare incroci mirati, per ottenere dei cani con determinati canoni estetici e sociali. La classe borghese volle distinguersi da quella operaia creando razze destinate alla pura compagnia. Fu così che iniziarono a nascere i vari kennel di razza. Anche in Italia, in quel periodo, alcuni nobiluomini cominciarono a dare vita a club cinofili. Riconoscimento ufficiale e diffusione Il Lagotto Romagnolo, seppur autoctono del nostro Stivale, in quanto cane da riporto di zone paludose economicamente meno ricche, con un aspetto più rustico rispetto ad altri cani simili, dovette attendere più di un secolo prima di essere iscritto nel libro genealogico delle razze a cura dell’ENCI e poi in quello internazionale della FCI. In tale periodo, il nostro beniamino, ha persino rischiato l’estinzione e noi, oggi, avremmo perso un gran cane se non fosse stato merito di un gruppo di grandi appassionati, che negli anni 70 iniziarono un lungo percorso per il suo recupero. Mi emoziona sempre leggere di come esso fu salvato e da come si è trasformato da cane degli acquitrini a essere l’unica razza riconosciuta per la ricerca del tartufo. Lo standard di razza è stato ufficializzato e approvato dall’ENCI nel 1992. Nel 1995, la Federazione Cinologica Internazionale (FCI) ha riconosciuto ufficialmente il Lagotto Romagnolo come razza canina italiana, appartenente al gruppo 8. Nel 2023 il Lagotto Romagnolo Orca ha vinto il Best in Show al Crufts 2023. Una razza italiana nell’olimpo cinofilo! Preservazione della razza Oggigiorno, il Lagotto Romagnolo, è diventato molto popolare sia in patria che nel mondo e la richiesta di cuccioli è sempre in aumento. Purtroppo a tutta questa rinomanza, corrisponde anche un rovescio della medaglia dove alcuni personaggi inseguono solo il guadagno scucciolando senza criterio. Oggi, diversi allevatori e associazioni si dedicano alla preservazione e al miglioramento della razza. La scelta di un cucciolo di Lagotto Romagnolo è un momento emozionante ma anche cruciale, che richiede attenzione e considerazione. Un allevatore etico e serio, nel suo lavoro non mette solo amore e passione, ma soprattutto la conoscenza delle genealogie, l’esperienza, la ricerca dei migliori patner per le sue fattrici. Con l’aiuto dei test genetici accoppia sempre e solo individui compatibili e sani, ha una cura particolare nell’alimentazione, si documenta sempre su nuovi studi della razza e del cane in generale. La sua attività è sempre in divenire e mai statica, si confronta, volentieri, coi colleghi affinché questa amata razza migliori di cucciolata in cucciolata. Conclusione La storia del Lagotto Romagnolo è un esempio interessante di come la sinergia con l’umano, ha potuto adattare ed evolvere una razza canina preservando le sue ancestrali caratteristiche morfologiche, le sue motivazioni di razza e mantenendo il legame con la sua terra d’origine. foto cane e citazione allevamento Pubblicato dall’ Allevamento I Pignatei

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